venerdì 2 aprile 2010

PD, partito discussione che deve trovare il suo Richard Alpert


In queste ore di analisi e contro analisi del risultato elettorale del Pd la verità risulta essere quella della stasi del partito proprio sul piano politico. Se in termini di numeri assoluti, infatti, si è fermi dopo aver perso comunque qualcosa come quattro milioni di voti nelle ultime tornate, il punto è che non si cresce nonostante l’altra inconfutabile verità del calo speculare del Pdl.E bisognerebbe chiedersi perché nel 2008 si era invece riusciti, risalendo la china, a far coagulare un consenso fino a raggiungere il tanto disprezzato (in casa Pd) 34,4 %.
Forse in quella occasione era stato più chiaro, al di fuori del consueto bacino elettorale, il messaggio di un progetto di cui si era portatori e per cui lo stesso Pd era nato. Dopo aver di fatto sprecato l’occasione del congresso con la prova muscolosa (piaccia o non piaccia con questa verità il partito dovrà urgentemente fare i conti) recuperando, con lo spirito fondativo dal lingotto in poi, temi che per esempio guardino alle fasce sempre più estese dei non garantiti. E questo va fatto con chiarezza per superare l’attuale situazione che sul territorio vede fermi ancora nella testa (e non solo a ds e margherita).

Matteo Renzi, sindaco di Firenze, non ha risparmiato un sonoro “fifone” all’indirizzo del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. Il mancato candidato alla presidenza della Regione Lazio gli ha risposto con un duro “carrierista”.

E’ successo anche questo durante l’ennesimo dopo elezioni democratico dove si fa a gara per colpire o difendere segretario e dirigenza. Questa volta però, accanto ai big si sono fatte sentire le cosiddette seconde linee o leader-futuro; e non solo, anche i soldatini di un partito che dal 2008 non riesce a non perdere voti ma che quando si tratta di riflettere a posteriori sa mettere in campo una vasta letteratura di analisi e commenti.

Facebook poi ha dato la possibilità di portare alle estreme conseguenze questa caratteristica strutturale.Fra lunedi e mercoledi scorso (ma ancora si continua) chi ha almeno una decina di amici “democrats” avrà notato la quantità impressionante di status, commenti ad altri status, note di analisi, link ad articoli di giornale, post di blog, immagini autoironiche, ecc…
Un fenomeno al quale, ammetto, anch’io ho dato un contributo, e che è quello che può dare la forza di continuare a credere in questo progetto politico a chi ci tiene da anni e la cui convinzione sta cominciando a vacillare.Infatti, la grandissima maggioranza di questi utenti della rete non viene pagata per pensare e battere su una tastiera riflessioni, molto spesso, lucide, precise e sudate nei ritagli di tempo.
A differenza di un Migliavacca, coordinatore organizzativo del Pd, che perde in simpatia già la seconda volta quando, davanti a “ventisette” microfoni e telecamere, sbaglia articolo determinativo (“la Pdl”); o di un Latorre che devi accettare che ti rappresenti e che faccia, svogliato secondo chi lo ascolta, ragionamenti poveri di appeal e di contenuto a Otto e mezzo, Tetris, Linea Notte e/o Porta Porta (ad esempio e nell’ordine).
Convincere che nella sua Puglia sia il Pd il principale artefice della riconferma di Vendola in regione, è esercizio sostanzialmente impossibile se non si vuole ammettere che i democratici pugliesi si riconoscano in Vendola e non nella dirigenza nazionale (di origini pugliesi).

Ma torniamo ai militanti che su facebook hanno dato sfogo alle loro opinioni. Bisogna ammettere che alcuni non hanno perso l’occasione per rendersi strumento di rivalsa dei big della minoranza. Su tutti il primo segretario Walter Veltroni che, grazie ad una intervista su Repubblica di ieri, nella home del sito più frequentato in Italia come nel mondo, ha superato tutto il resto, anche la diatriba Mourinho-Balotelli. Ai molti che hanno postato nella loro bacheca il suo sfogo che prova ad essere costruttivo, hanno risposto in tempo reale quelli che difendono, più che Bersani, l’entourage di primo e secondo livello che gli ha permesso di vincere il congresso.
Diversi, cresciuti a pane e D’Alema, si sono scatenati aumentando notevolmente il loro ritmo di scrittura in questi ultimi due giorni, con numerosi articoli e/o post che vengono utilizzati per dimostrare varie verità (ai loro occhi). Primo, per costruire un partito dopo anni di devastazione (segreterie Veltroni e Franceschini) non bastano pochi mesi. Secondo, è vero che un minimo di inversione di tendenza c’è stata, perché altrimenti (come tutti si aspettavano a dicembre) sarebbe finita 7 a 6 o addirittura 8 a 5 per il centrodestra. Terzo, si dichiara definitivamente guerra a Repubblica (più l’Espresso) che si permette di criticare l’operato e i risultati di Bersani.
Invece di santificare Vendola e Grillo (oltre che quella fastidiosa intervista a Walter), perché Ezio Mauro (anche nel suo editoriale) non pensa a sottolineare che il Ministro Fitto si è dimesso, che Brunetta ha perso mentre Zaia veniva eletto imperatore, che Castelli è stato respinto con un atto di forza da parte del suo popolo leghista? Queste le argomentazioni degli avvocati della non sconfitta.

Se non bastasse ci si è messa, volente o nolente, pure la primogenita Veltroni, che durante la notte dei risultati da una tastiera newyorkese si è messa a scrivere uno status al vetriolo sul suo fb, chiedendosi se ora qualcuno si sarebbe dimesso.

Non potevano mancare nemmeno “due vecchi arnesi” della politica italiana, così amano definirsi Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino, che dal loro The Front Page (altra fonte di chi non può attaccare l’attuale maggioranza del Partito) hanno lanciato una proposta provocatoria a quel Renzi e a quello Zingaretti con cui ho aperto questa rassegna. Si propone loro di fare semplicemente quanto De Mita e Forlani fecero nel preistorico 1969 a San Ginesio: un “accordicchio” tra giovani per non farsi la guerra e consentire a se stessi, insieme, di togliere di mezzo i vecchi maggiorenti. Il solo pensare ad un San Ginesio, in questa Italia e per cambiare le cose, spero che sia la dimostrazione definitiva di una classe dirigente fuori dal tempo e dallo spirito (a meno che non sia talmente intelligente da creare trappole ai “giovani”, e allora non so cosa sia peggio).

Viviamo i tempi della rete, dei militanti che formano autonomamente sezioni non più e non solo territoriali in base a residenze magari subite, ma in base alle proprie idee, delle sezioni mai ferme perché costrette con gioia a far valere la bontà, l’utilità e la coerenza delle proprie posizioni.

Ovviamente, un partito (e questo bisogna fare) non si fa su facebook o attraverso le agenzie di stampa. Un partito radicato sul territorio, come la Lega, a ragione esempio tanto di moda, si fa soprattutto nei mercati rionali, nelle fabbriche, nelle sedi dei grandi uffici, nelle scuole e nelle università, nei centri anziani, nei centri sportivi: insomma in mezzo a chi va a votare.
Ma la Lega dagli anni ottanta ad oggi ha avuto, ed ha meno bisogno di lavoro e capacità persuasive, perché ha scelto di aggregare persone su idee e pensieri molto più facilmente comunicabili e allo stesso tempo recepibili. Questo è un elemento di non poco conto. E’ per questo che solo la Lega riesce ad avere una presenza territoriale come quella dei due maggiori partiti di massa italiani del novecento, la Dc e il Pci. Se Berlusconi non ha bisogno delle sezioni e di questa presenza capillare, il Pd invece sì, ma naturalmente fa più fatica vista la complessità delle idee che propone e su cui vuole creare consenso, e anche perché oltre a ciò fa di tutto per complicarsi questa vita che già in partenza ha scelto di avere non semplice.

Ricordato con forza questo e sottolineato che non ha importanza se è il “giovanilismo qualunquista” a rispondere all’ormai inutile nostalgia leninista o viceversa, ecco perché do ragione ad Antonio Padellaro quando apre il suo giornale col titolo “Con questi non vinceremo mai”. Gli dò ragione sorridendo (non amaramente, anzi) poiché io mi vanto (di questo sì) di dirlo insieme ad altri da anni, da quando lui era direttore de l’Unità e gonfiava talvolta (onore alla sua confessione) le cifre delle manifestazioni di quella sinistra. Quella sinistra che come oggi non ci aveva capito nulla, non aveva compreso che doveva lavorare più e meglio di quanto avrebbe dovuto fare se avesse perso.

Correva l’anno 2006, Lost, la migliore serie televisiva della Terra, era alla sua seconda stagione e nessuno poteva immaginare che nella sesta e ultima ora in onda, sei candidati sarebbero stati guidati per salvare se stessi e tutto il resto. Alla fine ne dovrebbe restare uno solo, destinato a fare il leader, ma grazie a Richard Alpert, la guida, appunto, in questo cammino in corso.

Chi, in questa ultima stagione (spiaggia) nel Pd, è tanto capace di guidare, incoraggiare e formare una mezza dozzina di candidati e, soprattutto, tanto umile da farsi da parte a missione conclusa ? | permalink